Novembre 21, 2023

Fare impresa e produrre valore collettivo

Bilanciando risultati economici, sociali e ambientali

Dopo un tempo che per complessità di accadimenti ha indiscutibilmente cambiato le nostre abitudini e gran parte delle modalità che muovono le nostre azioni e le nostre relazioni, se da un lato, la sensazione è di essere entrati in un’età “senza casa”… in una sorta di spazio in cui a prevalere sono le incertezze e le paure; dall’altro lato, la sensazione è che esista, e stia crescendo, un fine e diffuso tessuto di cura solidale dalle forme inedite, capace di reggere la complessità, promuovendo nuove forme di coesione, vicinanza e solidarietà. Una visione, la mia, di una 50 enne fortemente attaccata alla vita, ma anche ai sogni, nonostante le molteplici difficoltà che questi anni ci stanno regalando.

Credo che uno dei maggiori contitributi, se così possiamo chiamarli, portati dalla Pandemia prima e dalla guerra ora, sia quello di averci reso più consapevoli di una piccola enorme questione: ognuno di noi è vulnerabile! E sapete qual è la novità? La novità sta nella lettura che possiamo dare a questo termine.
Chi è vulnerabile può affidarsi agli altri!

Chi è vulnerabile desidera fidarsi! Chi è vulnerabile è capace di ascolto!
In questo senso, la vulnerabilità può essere anche letta come una linfa inimmaginabile e comune per costruire nuovi legami!

La vulnerabilità, la fragilità di ognuno di noi, può rendere possibile giocarsi e condividere inaspettate abilità, capacità, competenze, successi ma anche… emozioni (un’area, quest’ultima, quasi sempre soffocata quando si parla di ambiti lavorativi).

Senza progetti condivisi, senza spazi condivisi, senza azioni condivise, non esistono relazioni e risultati capaci di restituire fiducia, generare successi lavorativi e quindi nuovi stili di vita e solidarietà! Tra sconosciuti non può es- serci altro che la distanza se non si creano ponti!

Oggi il rischio più grosso che vedo all’orizzonte è che tutto scivo- li verso un unico sfondo, quello dell’indistinto e delle retoriche prive di contenuti e di concretezza. Litanie finalizzate a promuovere pessimismo, disincanto e vittimismo. Scuse istituzionalizzate per dirsi “non possiamo farci nulla” oppure “è sempre stato così” o “non sono io a decidere”.

Beh a questa stregua, non so dove arriveremo…e io non ci sto! L’invito che faccio quindi all’intero nostro settore è di promuovere e di ritrovare proprio nelle relazioni anche lavorative i tratti di una nuova e grande avventu- ra, di una storia comune, percependone la bellezza come mai si è fatto, compreso il senso positivo della nostra vulnerabilità!

Il lavoro, anche sociale, che noi come imprenditori possiamo por- tare avanti non può prescindere dal ruolo educativo che le nostre azioni comportano, permettendo alla comunità di cui facciamo parte di leggere e coltivare il nuovo che sta nascendo e deve ancora nascere!

Ciò che intendo dire è che le nostre azioni possono essere intese come esempi a cui riferirsi, occasioni in cui coltivare cura, in cui dar forma a legami capaci di ascolto, progettualità e quindi assunzione di responsabilità re- ciproca.

Nonostante sia trascorso oltre un decennio dalla pubblicazione dell’articolo che consacrò l’affermazione dell’importanza della creazione di valore condiviso da parte delle imprese, articolo pubblicato sulla Harvard Business Review nel 2011 a cura di M. Porter e M. Kramer (Creating shared value, 2011) e nonostante le sfide imponenti a cui noi tutti siamo stati costretti a causa della Pandemia da Covid-19, tutt’oggi la sensazione che provo è che continui a persistere e, per troppi versi, a prevalere un intenso dibattito sul tema del Valore condiviso, senza che vi sia però la dovuta operatività e concretezza espressa dagli intenti, non solo accademici.

Il fatto che ad oggi vi sia una quantità enorme di pubblicazioni, saggi, così come eventi incentrati sulle responsabilità sociali che le imprese dovrebbero promuovere è certamente sintomo di un cambiamento culturale, ma l’impressione è che la questione continui a rimanere ancorata ad una dimensione prevalentemente teorica! Ormai, il vestirsi di “verde” e l’essere “socialmente responsabile” per un’impresa se da un lato sembra connotare l’immagine della maggior parte delle nostre aziende, dall’altro lato si può dire non basti già più: non è solo pittando di verde l’immagine delle nostre attività che si può arrivare ad un nuovo futuro sostenibile! Ciò che proposero M. Porter e M. Kramer nel loro articolo del 2011 fu un radicale cambio di prospettiva: essi partirono dalla consapevolezza che esistesse una stretta interconnessione tra la competitività di un’impresa e il benessere della comunità.

Quindi, tornando al discorso di prima, posero al centro del tutto, le RELAZIONI!

Relazioni tra aziende di produ- zione, distributori e operatori, relazioni con i consumatori finali. Relazioni! Il valore condiviso, in questo senso, fu inteso finalmente come una nuova e possibile strategia di successo economico, capace di generare nello stesso tempo progresso e valore sociale attraverso l’integrazione dei bisogni sociali e delle questioni ambientali delle imprese.

La novità apportata da questa diversa concezione si poneva l’obiettivo di riuscire a generare un’inversione di paradigma, ca- pace cioè di riorientare e di superare quel trade off tipico della visione neoclassica, che aveva concepito esclusivamente come costo e come estranee alle strategie e al business delle imprese quelle azioni classificabili “da buon cittadino”, spesso portate avanti in modo generico e non continuativo…come riciclare i rifiuti, fare donazioni per cause sociali, organizzare azioni conviviali tra collaboratori, ecc.. ecc.

Un cambiamento, questo, fonda- mentale a cui riferirci tutti, gran- di e piccoli, se si vuole davvero costruire una società più sostenibile e socialmente migliore! Come imprenditrice di terza generazione che ha preso il testi- mone di una storia nata con mio nonno Cecco nel 1938, grazie alla creazione di una fabbrica di produzione di coni e cialde (Ostificio Prealpino srl), e di un’azienda di distribuzione specializzata nata con mio padre Arnaldo 1980 (Puntogel srl), ciò che ho descritto finora si è tradotto innanzitutto at- traverso l’accettazione che il cambiamento possa essere letto come elemento evolutivo e non come motivo di discontinuità o rottura con il passato.

La Pandemia, così come la crisi energetica pocanzi vissuta e la guerra in corso a soli pochi km da noi, hanno rappresentato indubbiamente un dramma. Ma se ci fossimo fermati nell’attesa che M finissero, avremmo già chiuso baracca. Tutti!

Potrà sembrarvi un paradosso, ma è anche grazie a questi stravolgimenti che in Puntogel e in Ostificio Prealpino si è dato il via a un cambiamento incredibile chiamato destagionalizzazione e apertura a mercati attigui (pasticcerie-panifici-ristoranti), fino ad allora conosciuti marginalmente.

Un percorso difficilissimo, che ha portato le aziende a fare importanti scelte, dall’ampliamento degli spazi di stoccaggio, con l’acquisto di un nuovo capannone, piuttosto che l’apertura di un’area interamente destinata a produzioni altre. Investimenti imponenti, in un’ottica di sviluppo e tenuta. L’inizio di una nuova era, per utilizzare una metafora…un’era fatta anche di deleghe, vista la poca conoscenza dei nuovi mercati e di inclusione di nuove figure professionali e quindi, per tornare al discorso iniziale, di maggiore consapevolezza delle nostre fragilità e dell’importanza che, soprattutto in situazioni del genere, possono avere le RELAZIONI, basi imprescindibili di qualsivoglia rapporto fiduciario. Ma come si è proceduto?

– Innanzitutto attraverso la valorizzazione di ogni singola risorsa umana che compone l’organizzazione che dirigono, cogliendone le peculiarità e specificità. Come? Coinvolgendola maggiormente nel processo di cambiamento.

Anche accogliendo potenzialità mai espresse prima, come la passione per certe pratiche (mentre scrivo non posso non pensare al mio Marco (nome di fantasia), ex commerciale interno, un ragazzo introverso, poco disponibile a socializzare, fondamentalmente taciturno… che identificata la sua vera passione, computer, grafici, tabelle, ecc… oggi si sta ritrovando a svolgere tutt’altro compito con, come potrete immaginare, tutt’altra voglia di esserci e fare!).

– Attraverso la condivisione delle strategie e degli obiettivi da prendere, abbandonando la logica familista che vedeva ogni decisione dipendere solo ed esclusivamente dalla figura apicale, il titolare d’azienda. Come? Accettando la mia-nostra finitudine.

– Accettando l’idea che includere le diversità possa rappresentare un’opportunità per l’azienda, in quanto arricchenti e portatrici di valori. In questo senso mi riferisco alle diversità derivate anche da settori diversi! Mondi attigui, la cui conoscenza risulta fondamentale per accedervi, proprio come dovrebbe succedere tra popoli diversi, culture diverse, abitudini diverse… che intendono e/o sono costrette a convivere.

– Attraverso l’idea che al termine “responsabilità aziendale” debba coincidere anche “responsabilità sociale e attenzione verso il prossimo, ambiente incluso”. Smettendo di pensare che le nostre piccole grandi azioni non abbiano conseguenze.

– Impegnandomi a formare e a delegare ad altri parte dei miei compiti, vivendo la loro presa in carico come elemento di continuità aziendale per cui nessuno è e deve essere indispensabile, a salvaguardia di tutte le figure coinvolte. Ho iniziato a impegnare del tempo lavoro nella formazione di specifiche figure a cui dare l’incarico di portare avanti pezzi importanti della mia quotidianità.

– Promuovendo ascolto, confronti, dibattiti, momenti di convivialità comune e gratificazione.

– Impegnandomi, per prima, nel promuovere gentilezza. Una parola che troppo spesso viene ancora contrapposta alle logiche competitive aziendali, ma che invece ritengo fondamentale laddove si desideri creare luoghi di lavoro in cui aver voglia di esserci e di dare la propria disponibilità.

– Infine, impegnandomi, per prima, nel dare il mio esempio. Senza imporlo. Nello specifico, così come era impegnato mio padre prima, anch’io dedico sempre parte della settimana a diverse cause sociali, assumendomene la responsabilità.

Dando il mio contributo, non solo economico, ma di competenze. Riversando, cioè, parte della mia vita anche lavorativa al bene comune, coltivando quel valore collettivo di cui si faceva riferimento prima e che non dovremmo mai dimenticarci.

Un impegno a mia salvaguardia, ma certamente anche a tutela di chi verrà dopo. Perché se è vero che nulla è senza fine, che ci si impegni quantomeno a costruire il terreno su cui lasciar germogliare bene ciò che di nuovo i nostri figli coltiveranno, con la speranza che trovino la stessa passione e vocazione per cui ad oggi in Italia possiamo ancora annoverare l’esistenza di imprese gestite da imprenditori, titolari direttamente responsabili delle azioni che compiono, in continuità con la storia e le tradizioni che li resero grandi. A tutela dell’intera filiera e del made in Italy. Perché ricordiamoci bene che il food rappresenta per il nostro Paese un importantissimo veicolo di attrazione e quindi di business: regalarlo, svenderlo, violentarne le ricette, la storia, i mestieri fa male all’intero sistema Paese. E tornare indietro non è sempre possibile.

di Aurora Minetti

Articolo apparso sulla rivista “Gelato Artigianale” n. 367 di Novembre 2023.

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