Riscoprire l’imperativo categorico di Kant: questa è la vera rivoluzione, innanzitutto, perché ci restituirebbe una base morale universale grazie a cui potremmo ritornare ad agire secondo principi che potremmo volere come leggi universali.
Ma soprattutto, perché ci aiuterebbe a guidare (e non a subire) le scelte e le azioni di organizzazioni troppo spesso “invisibili”, perché celate da sovrastrutture, ristabilendo un senso del dovere indipendentemente dai desideri di queste ultime (focalizzati prevalentemente su interessi e profitti immediati o da circostanze contingenti).
È ormai assodato che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la storia economica dei Paesi avanzati si sia contraddistinta da un inscindibile binomio tra progresso economico, aumento delle disuguaglianze sociali e dalla tensione tra capitalismo e democrazia. Osservando i terribili fatti che stanno disegnando la nostra quotidianità, sembra che la società moderna abbia perduto completamente il senso dei no assoluti: recuperare taluni imperativi categorici potrebbe contribuire a riaffermare principi morali fondamentali, che vietano il perpetrarsi di certe azioni.
Una sfida impossibile?
Non credo. Chiedere. Pretendere informazioni. Fare chiarezza su chi fa che cosa e perché, sono solo tratti di un modus operandi che abbiamo tutti il dovere di recuperare per essere più liberi di scegliere ciò che davvero desideriamo e riteniamo giusto. Ma non solo!
Agire, potere grazie ad una domanda più consapevole circa i metodi di produzione, le etichette degli ingredienti, la filiera che sta dietro agli acquisti di chi produce, così come conoscere come ci si muove nei confronti dell’ambiente, del territorio, dei dipendenti… significherebbe costringere le filiere e quindi la politica ad adottare davvero azioni di autentica responsabilità sociale. È indubbio che parallelamente si dovrebbero costringere i governi a introdurre regolamentazioni più rigorose per garantire che le attività economiche rispettino davvero determinati standard etici, sociali ed ambientali, per cui la finalità dovrebbe essere: trovare veramente un sano equilibrio tra profitto e bene comune.
Nel panorama mondiale degli ultimi anni si sono diffusi, per fortuna, esempi anche positivi di imprese che hanno seguito un diverso modello di sviluppo; antesignano fu sicuramente Adriano Olivetti, che marcò profondamente la storia imprenditoriale italiana. Per Olivetti la fabbrica non poteva guardare solo all’indice dei profitti, doveva distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia: «Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica», affermando la necessità di realizzare “investimenti etici”. Finché continueremo a contrapporre etica e profitto, apertura sociale e utili aziendali, partendo dal presupposto che l’uomo sia capace di perseguire un solo fine e non una serie di obiettivi diversi ma armonizzabili, non arriveremo da nessuna parte. Occorrerebbe invece realizzare un cambiamento in grado di mettere in moto un’economia diversa da quella che fa semplicemente sopravvivere (ovvero lavorare per guadagnare i soldi per vivere); un’economia che include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del pianeta e non lo depreda. E occorrerebbe realizzare processi produttivi, progetti qualificati e una progettualità solidale in grado di garantire equità e giustizia per tutti. Il mondo della finanza che sta attraversando anche il nostro settore è potenzialmente una fabbrica di profitti “a tutti i costi”. Quindi?
È ORA DI RISCOPRIRE L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT: QUESTA È LA VERA RIVOLUZIONE
Come?
– Trasformando l’imperativo “l’imprenditore deve massimizzare il profitto” in un più umano “l’imprenditore deve conseguire il profitto ottimale”.
– Riscoprendo il senso e il valore del bene comune in contrapposizione alla ricerca esclusiva del bene del singolo.
– Superando la teoria dell’economia politica nata dalle teorie del filosofo inglese Thomas Hobbes (basate sull’assunto “homo homini lupus”) in base alle quali, poiché ogni uomo è un potenziale nemico degli altri, dobbiamo chiuderci in noi stessi per aumentare le nostre capacità di difesa, per contrapporlo all’assunto dell’economia civile, cioè: “homo homini amicus”, che vuol dire che ognuno è per natura amico degli altri.
In questa visione, l’imprenditore (e ognuno di noi lo è, piccino o grande che sia) potrebbe divenire davvero un potentissimo agente di trasformazione della realtà circostante verso una finanza più umana: una finanza non solo per il profitto, ma per lo sviluppo e che metta la persona prima del capitale, il progetto prima del patrimonio, l’equa remunerazione prima della speculazione.
DALLE TEORIE GESTIONALI DELLO SCIENTIFIC MANAGEMENT ALL’HUMANISTIC MANAGEMENT
Recuperando l’etica rigorista kantiana, non si possono certo dimenticare gli inevitabili compromessi richiesti dalla vita sociale competitiva. Ovviamente questo non può condurre ad una società retta da precari equilibri frutto di forze contrapposte in eterna lotta senza regole.
Talvolta poi, anche i più pragmatici e cinici giustificano verso gli altri e se stessi il proprio operato con motivazioni etiche, che possiamo individuare ad esempio nella necessità di una propria presunta difesa o nelle necessità di vita familiari. Ma la menzogna può essere scoperta.
Ne consegue una carenza di etica che pone la società (tutta, non solo l’economia) in pericolo di decadenza, come del resto si può dedurre da un attento esame delle dinamiche sociali del tessuto connettivo dei nostri distretti industriali. Anche le crescite economiche più dinamiche in lontane aree geografiche che sembrano improntate a mancanza di regole presentano in realtà aspetti etici, magari di difficile lettura per una cultura razionalista occidentale.
Si deve considerare la violazione delle regole come una speculazione a breve termine, pertanto a vantaggio di pochi, che viene a corrodere il capitale di molti, garanzia di un reddito da investimento a lungo termine.
VERSO UNA DIVERSA ETICA DEL LAVORO
La necessità dell’etica emerge chiaramente anche dalla recente teoria gestionale dell’“humanistic management” contrapposta allo “scientific management”, prassi ritenuta sempre più superata. La valorizzazione della capacità riflessiva, della responsabilità e dell’autocorrezione all’interno dell’organizzazione portano alla formazione di tante “verità” dialoganti, secondo una matrice umanistica in cui acquistano importanza le qualità personali. Non a caso tra i capitali aziendali a disposizione dell’azienda, quello Umano occupa il primo posto tra le strategie di sviluppo degli ultimi anni.
Questo perché, ancor prima di un Capitale Finanziario, vi è un “Capitale Umano”, che consiste nella capacità lavorativa, innovativa e creativa di ogni singola persona, soggetto-oggetto di valorizzazione e investimento. In questa prospettiva, che considera le diverse funzioni della natura dell’uomo e non solo quella di utilità individuale, che pone al centro la dimensione qualitativa, che si fonda sulla conoscenza come leva dello sviluppo, si finisce per vedere in una luce nuova il rapporto tra etica ed economia.
IL POTERE DEL CAPITALE UMANO NELLO SVILUPPO ECONOMICO DEL FUTURO: UNA SFIDA POSSIBILE
La principale implicazione per il business potrebbe essere che “Le relazioni organizzative dovrebbero necessariamente essere relazioni tra persone. Un business non è e non può essere visto dal punto di vista logico semplicemente come un insieme di relazioni economiche. Come tale, le relazioni organizzative sono soggette ad esame morale”. E ancora: “Trattare l’umanità di una persona come un fine, e non semplicemente come un mezzo, in una relazione di business richiede due cose. Primo, che le persone non siano usate, cioè non siano costrette o ingannate. Secondo, che le organizzazioni e le pratiche di business dovrebbero essere ordinate in modo tale da contribuire allo sviluppo delle capacità umane razionali e morali, piuttosto che inibire lo sviluppo di queste capacità. Questi requisiti, se ottenuti, muterebbero la natura della pratica di business”.
A tale riguardo, la governance gioca un ruolo fondamentale: una solida ed efficiente governance non è solo necessaria alla singola impresa, ma all’intero sistema economico e costituisce elemento di valutazione per la reputazione dell’impresa, valutazione costituente a sua volta elemento per la creazione di valore nel tempo.
Articolo apparso sulla rivista “Gelato Artigianale” n. 373 di Maggio 2024.
di Aurora Minetti (Amministratore Unico di Puntogel Srl e Sociologa e Dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione) ed Emanuela Salerno (Senior Analyst Area Studi Mediobanca)